Gli
Who sono una delle formazioni più inossidabili che il rock
britannico abbia conosciuto. Il chitarrista, cantante Pete
Townshend (nome d'arte di Peter Dennis Blanford Townshend,1945,
Londra, Gran Bretagna) e il bassista John Alec Entwistle
(1944, Londra, Gran Bretagna) si conoscono a scuola e nel
1962 formano alcuni complessi giovanili (tra cui una band
di dixieland, in cui il primo suona il banjo e il secondo
la tromba). Con Roger Harry Daltrey (1945, Hammersmith,
Londra, Gran Bretagna), di professione lattoniere, alla
voce, i Detours cominciano a crearsi un discreto seguito
nella Londra dei primi anni '60. Con l'arrivo dell'eccentrico
batterista Keith John Moon (1947, Londra, Gran Bretagna
- 1978, Londra), personaggio trascinante e spettacolare
(subentrato al dimissionario Doug Sandom), si afferma un'immagine
forte e ribelle del quartetto che si fa chiamare inizialmente
The Who e poi su indicazione del manager Pete Meaden, The
High Numbers. Con questo nome pubblicano, nel 1964, il 45
giri "I'm The Face" (firmato, come pure il lato B "Zoot
Suit", dallo stesso Meaden). L'anno seguente è decisivo:
i quattro si ribattezzano The Who e vengono scoperti da
Kit Lambert e Chris Stamp (in precedenza registi di cortometraggi)
che manovrano affinché il complesso entri nel cuore della
colorita scena britannica. Grazie ai singoli "I Can't Explain"
(il cui demo è realizzato anche con l'apporto di Jimmy Page
alla seconda chitarra) registrato nel dicembre 1964 e pubblicato
nel gennaio 1965 e "Anyway, Anyhow, Anywhere" (aprile 1965)
assaporano i primi successi, ma è l'inno epocale "My Generation"
(novembre 1965) a lanciare il quartetto. L'esordio a 33
giri The Who Sings My Generation (1965) è adottato dai giovani
mod inglesi come bibbia di vita giovanile, anche grazie
a un live act fulminante e di impareggiabile energia che
sconvolge la scena rock a causa delle chitarre che Townshend
distrugge colpendo l'amplificazione e alle pirotecniche
devastazioni operate da Moon sulla sua batteria.
Ma dietro a tutto questo c'è il talento del giovane Townshend,
che preferisce non scegliere una sola strada creativa. Nonostante
il singolo (ispirato ai Beatles) "The Kids Are Alright"
riesca a bissare il successo precedente, la vena raffinata
e ironica di brani come "Substitute" (febbraio 1966), "Happy
Jack" (novembre 1966), un rifacimento di "Batman" e "I'm
A Boy" (entrambe dell'agosto 1966) e dell'album A Quick
One (1966, opera intrigante e sofisticata per i tempi, comprendente
infatti la mini-rock opera omonima) non incontra i favori
del pubblico. The Who è già un gruppo di culto in Gran Bretagna,
ma è agli Stati Uniti che punta, patria di quel rhythm&blues
che permea lo stile del chitarrista dandogli un sapore inedito.
Grazie a un tour americano di inizio 1967 e alla spettacolare
apparizione al Monterey Pop Festival la sera del 18 giugno
dello stesso anno, il quartetto guadagna prezioso spazio
nel territorio statunitense con il 45 giri "The Last Time/
Under My Thumb" (due canzoni dei Rolling Stones incise per
protesta contro l'arresto di Mick Jagger e Keith Richards
per detenzione di marijuana). Townshend trae ispirazione
dai suoi studi artistici confezionando lo splendido The
Who Sell Out (1967), un album che intercala canzoni originali
a falsi spot pubblicitari e autentici jingle delle stazioni
radio pirata britanniche, e che in qualche modo incapsula
un'idea d'arte pop sorretta da canzoni al limite del fanciullesco
("Mary Anne With The Shaky Hands"), accoppiate a brani visionari
di straordinario impatto come il singolo "I Can See For
Miles".
Il
successo però sfugge ancora e così la "rivoluzione" nel
sound e nell'immagine del gruppo avviene nel 1968, con l'uscita
del singolo "Call Me Lightning", suggello finale del primo
periodo. Quando in piena estate Magic Bus arriva sul mercato,
è evidente che gli Who hanno scelto una strada assai distante
dal pop, una via dove la forza della musica delle radici
deve trovare posto nell'ambito di un sound più elettrico,
in grado di incanalare l'impressionante energia sprigionata
dal complesso. Il segnale si concretizza in "Pinball Wizard",
45 giri tra i più belli della seconda metà degli anni '60
e assaggio di Tommy (1969), la prima opera rock che riesce
a individuare un ruolo nuovo per gli autori di musica giovanile.
Il successo del doppio LP riporta The Who al centro dell'attenzione
grazie a un'affascinante storia (quella del cieco, sordo
e muto Tommy) che si svolge attraverso una serie di indimenticabili
brani ("I'm Free", "Sparks", "The Acid Queen", "Tommy Can
You Hear Me?", " We're Not Gonna Take It"). L'apparizione
al festival di Woodstock nell'agosto del 1969 conferma The
Who come un gruppo rock di rara potenza e raffinatezza,
ma anche portatore di un'immagine ribelle e coerente. Il
tour che segue cattura al meglio questo spirito, come testimonia
il ruvido disco dal vivo Live At Leeds (1970), un'opera
di rara forza dove gli Who riescono a esprimere tutta la
propria grinta e abilità. La vulcanica vena compositiva
di Townshend e il suo crescente ruolo di portavoce della
cultura rock lo inducono a scrivere una nuova opera, Lifehouse,
che viene però in parte accantonata e dai cui avanzi nasce
uno dei grandi capolavori del rock di tutti i tempi, Who's
Next del 1971 (la ristampa in cd del 1996 presenta molto
del materiale scartato di Lifehouse).
È
l'estate del 1971: il grande sogno hippie degli anni '60
sembra ormai infrangersi in un contesto sociale rapidamente
mutato, i grandi raduni dimostrano di essere ormai occasione
meramente commerciale più che genuina esperienza di libertà,
e il gruppo, partecipando nell'estate precedente al festival
dell'Isola di Wight (la loro performance è ripresa sul live
The Who At The Isle Of Wight Festival, 1996), lo sperimenta
sulla propria pelle. In questo contesto Who's Next è un'opera
fondamentale. Townshend non solo sfodera alcuni classici
straordinari ("Baba O'Riley", "Behind Blue Eyes"), ma riesce
anche a riassumere tensioni sociali e riflessioni esistenziali
nella straordinaria "Won't Get Fooled Again", segnata dalla
voce intensa di Daltrey, che cristallizza la delusione di
un grande sogno collettivo infranto. Dopo l'antologia di
rarità curata dal gruppo stesso Meaty Beaty Big And Bouncy
(ottobre 1971) e una serie di tour di enorme successo in
Europa e negli Stati Uniti, Townshend (che nel frattempo
partecipa a "Happy Birthday" e "I Am", due album-tributo
al guru Meher Baba e l'ottimo "Who Came First" del 1972)
torna all'epoca giovanile per ispirare un'altra opera rock
destinata a narrare la vita di un mod in un'Inghilterra
di metà anni '60 percorsa da rapidi e radicali cambiamenti.
Quadrophenia (1973) è il doppio album che ancora una volta
cattura lo spirito di una porzione dell'universo giovanile,
i mutamenti di sensibilità e di aspettative sociali con
un interessante viaggio a ritroso. Il sound è sempre più
robusto ma non mancano toccanti tributi agli elementi che
fanno da contorno alla vicenda del protagonista Jimmy: "The
Real Me", "I'm One", "Is It In My Head", "I've Had Enough",
"5:15" e "Love Reign O'er Me" catturano con impeto l'ultimo
grande momento creativo degli Who. Nel 1974, Odds And Sods
presenta una serie di canzoni rare o inedite scelte da John
Entwistle, inclusa "I'm The Face" degli High Numbers e un
paio di brani dal periodo Lifehouse.
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